Conosciuta un tempo per la bellezza dei paesaggi e per la salubrità dell’ambiente, l’area dei Castelli Romani è stata protagonista di una ricca letteratura. Sin dall’antichità molti autori ne descrivono la fertilità dei suoli raccontandone le tradizioni agricole. In epoca Imperiale questa zona conobbe un momento di grande vitalità e splendore quando importanti esponenti della vita politica e culturale vi stabilirono le loro dimore preferendola alla caotica Roma; proprio nell’ager albanus, a Castel Gandolfo, l’Imperatore Domiziano fece realizzare la sua villa
dall’architetto Rabirio, costruzione su cui più tardi fu eretto Palazzo Barberini. Nel corso dei secoli lo sguardo di celebri artisti si posò sugli scorci offerti dai Castelli Romani che divennero eterni nelle opere di Annibale Caracci, Domenichino, Poussin, Van Bloemen, Vanvitelli e Corot. Sul versante letterario molti scrittori di diverse nazionalità come Gregorovius, Winckelmann, D’Annunzio, Barth e Belli contribuirono ad accrescere il fascino e la curiosità intorno a questi luoghi molto amati.
Proprio in un’opera letteraria, pubblicata dalla Utet nella seconda metà dell’Ottocento, “I Colli Albani e Tusculani” dell’avvocato e storico Oreste Raggi, compare per la prima volta l’espressione “Castelli Romani” ad indicare forse proprio la presenza di tante nobili abitazioni in questa località a sud est dell’Urbe. Per lungo tempo la grande popolarità di questo distretto fu legata ai collegamenti con la città di Roma; una vicinanza così importante da indurre il Cardinale Sacchetti a ordinare, in un editto del 1656, che fosse sempre garantita la percorribilità delle strade su cui circolavano i carri che rifornivano di vino la città.
Da un punto di vista agricolo lo scenario iniziò a mutare gradualmente dopo l’Unità d’Italia quando la maggior parte dei terreni era concentrata nelle mani di grandi proprietari terrieri; così non era a Frascati, dove il livello specializzato della viticoltura comportava un diffuso frazionamento dei poderi in aziende di medie e piccole dimensioni a conduzione familiare. In seguito alla distruzione delle vigne operata dalla fillossera, il Ministero dell’Agricoltura istituì un Campo Sperimentale per la Viticoltura dislocato su 7 ettari con lo scopo di lavorare intensamente alla ricostruzione del vigneto attraverso l’allevamento vivaistico di
barbatelle prodotte attraverso differenti portinnesti da viti americane. Si aprì una nuova fase di rinascita per l’economia vinicola della zona che continuava a godere di un privilegiato commercio con i ristoranti e le osterie di Roma. Fino alla metà del ventesimo secolo, per il trasporto del vino erano impiegati i “carretti a vino” che, carichi di botti, percorrevano la via Tuscolana nella notte o la mattina presto per arrivare al dazio di Porta San Giovanni detta anche Porta di Bacco. Tra gli anni ’50 e ’60 Frascati e i borghi dei Castelli Romani si affermarono come meta prediletta da attori italiani e stranieri, e approdo delle gite domenicali dei romani che vi arrivavano grazie ad un’efficiente linea tranviaria, principale collegamento con la Capitale e la cui soppressione costituì un colpo vero e proprio per la popolarità della zona.
Proprio nel periodo di maggior lustro per i vini locali si intravedevano i primi segni di quello che pochi anni dopo avrebbe rappresentato un progressivo declino della produzione vinicola dovuto all’ampliamento dell’offerta di altri prodotti sul mercato romano che iniziò a ridurre l’assorbimento di quelli provenienti dai Castelli. Il fattore scatenante della crisi di domanda di questi vini castellani è da ricercare nel radicale mutamento del volto della viticoltura stessa. I vitigni da sempre presenti sul territorio come Malvasia del Lazio e Bellone furono sostituiti
dalla Malvasia Rossa dei Castelli Romani (Malvasia di Candia), una varietà molto produttiva soprattutto se allevata con impianto a tendone
rispetto al cordone speronato e alla storica conocchia, sistema tipico della zona che scomparve quasi del tutto. Sorsero le prime grandi cooperative e cantine sociali che optarono per un aumento della produzione a fronte di un conseguente abbassamento del valore delle uve, creando delle vere e proprie falle nella struttura della piccola impresa familiare. Nel contempo la frenetica espansione urbanistica dei comuni provocò l’abbandono dei vigneti e la successiva cementificazione delle aree precedentemente vitate. Mentre nel resto del mondo si scoprivano i pregi qualitativi derivanti da produzioni contenute di uve, nei Castelli Romani si assisteva ad un’inversione di tendenza. Nel 1963 il disciplinare della Doc Frascati fissa al 70% la quantità minima di Malvasia Rossa allevata a tendone, combinazione che contribuì ad incrementare le rese per ettaro determinando un significativo calo
della qualità del vino. L’ottenimento della Denominazione di Origine da parte del Frascati indusse i comuni limitrofi a richiedere e ottenere il medesimo
riconoscimento creando un nuovo frazionamento dell’area e il deterioramento della notorietà di questi prodotti sui mercati italiani. Nel 2011 il Ministero delle Politiche Agricole ha riconosciuto la Docg alle tipologie Frascati Superiore e Cannellino, indicando come vitigni consentiti per la loro produzione la Malvasia di Candia, integrando nuovamente la Malvasia del Lazio con una percentuale minima del 70%, con l’aggiunta per il 30% di Greco Bianco, Trebbiano Toscano e Giallo, Bellone e Bombino. Il disciplinare vieta la pergola e il tendone come forme di allevamento e stabilisce il limite minimo di 3.000 ceppi per ettaro come densità d’impianto.
(Tommaso Aniballi)