Dell’oca non si butta via niente

31 Agosto 2012

portico-dottaviaMangiare carne di maiale è comune a tantissime civiltà e a tutti i periodi storici. Nei paesi dove viene consumato questo tipo di carne esiste un proverbio secondo i quale “del maiale non si butta via niente” per sottolineare non solo la bontà dell’alimento, ma anche l’utilità di tutte le parti dell’animale. Per la cultura alimentare ebraica, che vieta il consumo di maiale, il proverbio va invece modificato in “dell’oca non si butta via niente”, perché è proprio questo grasso volatile che in molte comunità ebraiche ha preso il posto del maiale, tanto da essere stato soprannominato dal famoso gastronomo Pellegrino Artusi “il maiale degli ebrei”. Mentre Maestro Martino, famoso cuoco quattrocentesco, avvertiva che “ per cuocere ocha, voglie esse arosta, piena d’aglio, cipolle et altre buone cose”, il Thresor de santé, un testo pubblicato a Lione nel 1607, invece, non nutriva particolari simpatie per questo cibo e lo definiva “uccello domestico la cui carne molto escrementizia e di difficile cottura, è la meno raffinata e la più fredda e umida tra tutte”. Un giudizio così severo non poteva certo essere condiviso dagli ebrei, per molti di essi infatti l’oca costituiva la principale risorsa di autoconsumo domestico, un alimento gerarchicamente al primo posto nella mensa familiare, a cui si poteva fare ricorso sotto forma di carne salata, insaccata, salmistrata, nei freddi mesi invernali. Apprendiamo queste informazioni da Mangiare alla giudia di Ariel Toaff che ci informa però anche che il consumo dell’oca era diffuso principalmente nelle comunità della pianura padana, dal Piemonte all’Emilia,  alla Romagna, mentre era pressoché ignorato dagli ebrei di Roma e della Toscana. Toaff è uno storico rigoroso che ha scritto diversi testi di storia ebraica ma, evidentemente, nutre un interesse particolare per l’alimentazione e tramite questa evidenzia aspetti specifici della storia e della cultura ebraica e della sua convivenza con i cristiani. E’ molto illuminante una considerazione, fatta en passant, secondo la quale prima della creazione del ghetto (1555), la comunità degli ebrei romani era ritenuta la più ricca e colta d’Italia tanto che i suoi conviti non si discostavano per ricchezza e sontuosità da quelli dei patrizi e della borghesia locale.

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Dopo quella data, invece, le cose cambiarono e gli ebrei romani si trasformarono, più per necessità che per amore, in forti mangiatori di frattaglie e carne secca preparate e cucinate in un’infinità di modi dai sapori forti e seducenti come pure in consumatori di carne di bufala, considerata di qualità inferiore. Come è noto, la cucina ebraica fissa modalità molto rigide per la preparazione, la cottura e il consumo degli alimenti ed esclude anche una serie di carni, molluschi ed altri cibi. Tutte le comunità ebraiche italiane hanno sempre seguito in modo molto rigido le norme alimentari, escludendo non solo i cibi non consentiti ma anche le modalità non conformi alla tradizione. Si pensi, tanto per fare un esempio, che per poter consumare il vino si prevede che le uve siano pigiate soltanto da piedi ebraici. Toaff dimostra che tutte le comunità italiane hanno costantemente seguito i dettami dell’ortodossia. Sembra fare eccezione Roma dove, forse contagiati dallo spirito locale, le norme alimentari ebraiche venivano applicate con eccessiva disinvoltura o colpevolmente disattese. Ma in generale, gli ebrei italiani erano molto più liberi nell’applicazione dei divieti alimentari biblici e rabbinici rispetto ai rigidi ebrei levantini, nordafricani o ashkenaziti, soprattutto per quanto riguarda il consumo di pane, vino e formaggi. Questo fatto è attestato dal rabbino Leone da Modena nei suoi Riti (1638), quando a proposito del divieto di bere vino prodotto da non ebrei rileva che “così osservano i Levantini e Tedeschi, ma in Italia non hanno questo riguardo”. In appendice, il libro riporta una serie di antiche ricette ebraiche di varie epoche e provenienze. La seguente proviene da una fonte romana della metà del XVII secolo.

Aliciotti con l’indivia

Ingredienti

1 kg di alici o acciughe fresche

2 kg di indivia bianca e riccia

2 o 3 cucchiai di olio di oliva

sale e pepe q.b.

Pulisci accuratamente gli aliciotti (ovvero le acciughe fresche di media grossezza), togliendo le teste e le spine. Lava e scola l’indivia bianca, possibilmente quella riccia, eliminando le foglie più dure. Disponi in un tegame di coccio  a strati alternati l’indivia e gli aliciotti, condendo ogni strato con olio d’oliva, sale e pepe, badando che il primo e ultimo strato siano di indivia. Cuoci a fuoco basso e poi al forno per circa mezz’ora e fino a che sull’indivia dello strato superiore non si sia formata una bella crosta dorata e il tortino sia completamente asciugato.

Ariel Toaff

Mangiare alla giudia

Cucine ebraiche dal Rinascimento all’età moderna

il Mulino, pagg. 300, € 24

 

Galliano Maria Speri

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