(Parte 2)
Una delle ragioni per cui è vitale difendere la grande cucina nazionale prefigurata da Artusi è che essa riveste un’importanza cruciale nell’identità sociale del cittadino. Questo è vero soprattutto per l’Italia dove l’arte della preparazione del cibo fa parte integrante della storia nazionale e riveste un ruolo centrale per quanto riguarda la vita sociale. L’introduzione forzata di quelle entità brutte e maleodoranti chiamate fast-food (e l’anglicismo ne sottolinea la sostanziale estraneità alla nostra cultura), dove vanno a riempirsi la pancia (si fa per dire) coloro che a causa della crisi economica non possono più permettersi il lusso di un pasto in un normale ristorante, distrugge un importante processo culturale.
Si tratta di quelle nozioni di buona cucina e corretta alimentazione che ogni madre trasmette alle figlie che, a loro volta, tramandano ai discendenti le ricette tradizionali. Nella maggioranza dei casi si tratta di piatti complessi, gustosi e nutrienti che richiedono una messa a punto lenta ed accurata. Questi piatti, sostanziosi perché ad alto contenuto proteico, hanno un’importanza particolare perché vengono preparati in occasioni particolari solitamente dalla madre che è la figura centrale attorno alla quale ruota tutto il pranzo.
La laboriosità della preparazione rende queste vivande cose al di fuori del comune e cementa come una specie di cerimoniale l’unità della famiglia a cui si aggiungono spesso i parenti e gli amici. La cucina veloce, il panino ingurgitato in fretta e furia, è semplicemente incompatibile con la buona cucina che ha invece bisogno di tempo, di cura ed anche di un adeguato investimento. Il risultato è che non scompaiono semplicemente ricette ottime come le olive ripiene all’ascolana, il brasato al Barolo o l’ossobuco alla milanese. E’ la struttura stessa della famiglia che viene messa sotto attacco perché se il nutrimento comune è un semplice panino non esistono ragioni per consumarlo tutti insieme ed ognuno può mangiare isolatamente la sua porzione.
I figli di questa situazione, non avendo mai imparato a cucinare trasformeranno i pranzi domenicali in tristissime occasioni per ingoiare “specialità” appena uscite da una scatola o dal freezer. Scompare così, poco a poco, la figura della “cuoca”, che ha imparato la sua arte dalla madre ed ha acquisito una vastissima esperienza nel preparare pranzi sociali e bisogna far affidamento sempre di più sul “cuoco” che è il professionista che, con lo studio e la pratica, riesce a sfornare sia novità gastronomiche che piatti tradizionali di buona qualità. Una difficoltà aggiuntiva è poi data dal fatto che nelle moderne abitazioni alla vecchia cucina, ampia e funzionale, è stato progressivamente sostituito un “angolo cottura”, un bugigattolo angusto, in cui al massimo si possono bollire due uova e non certo realizzare le articolate ricette dell’Artusi.
In questa maniera viene a crearsi una dicotomia pericolosa perché senza la tradizione viva della cucina familiare, arricchita dai secoli, l’arte del “cuoco” rischia di trasformarsi in un funambolismo culinario che perde di vista la necessità di cementare i rapporti sociali e familiari che, oltre al soddisfacimento delle necessità fisiologiche, rappresenta la vera natura del mangiare. L’unione tra l’esperienza della “cuoca” e le conoscenze culturali del “cuoco” rende la cucina una cosa che può giustamente definirsi arte.
Dovrebbe a questo punto essere chiaro che la battaglia in difesa della buona cucina, iniziata nel lontano 1891 con la pubblicazione del fondamentale testo dell’Artusi, non è una fantasia nostalgica per i “buoni sapori della nonna” ma un aspetto importante per la difesa della sovranità nazionale, della produzione alimentare e dei livelli di vita stessi della popolazione. Per questa ragione, la grande cucina italiana va difesa con la stessa passione ed intelligenza con cui difendiamo la musica immortale di Giuseppe Verdi.
(fine)
Galliano Maria Speri