Nell’agosto del 1943, durante i furiosi bombardamenti con i quali gli Alleati cercavano di piegare quanto rimaneva del disastrato apparato produttivo italiano, una bomba colpì lo splendido complesso architettonico di Santa Maria delle Grazie di Milano. Il refettorio venne danneggiato in modo gravissimo, tanto che caddero rovinosamente tre pareti del complesso, mentre la quarta rimase miracolosamente in piedi. Se le bombe avessero abbattuto anche quella parete non avremmo mai più ammirato uno dei grandi capolavori del Rinascimento italiano, l’Ultima cena di Leonardo da Vinci.
Il convento e la chiesa annessa furono inizialmente progettati da Guiniforte Solari. I lavori iniziarono nel 1463 per terminare nel 1490. Successivamente, il signore di Milano Ludovico il Moro decise di apportare delle modifiche affinché il complesso potesse ospitare il monumento sepolcrale della moglie Beatrice d’Este. Le modifiche furono affidate a Donato Bramante che fu probabilmente affiancato da Leonardo, che ricevette il compito di dipingere la parete di fondo del refettorio, una monumentale sala coperta da volte a lunette. Leonardo si mise all’opera tra il 1494 e il 1495, ma commise un gravissimo errore tecnico che ben presto rischiò di pregiudicare l’esistenza stessa del suo capolavoro. Per dipingere l’enorme parete, il grande genio rinascimentale non si servì della tecnica “a fresco”, apponendo cioè il colore su uno strato di intonaco umido che, asciugando, ingloba stabilmente il colore. Leonardo usò invece una tecnica a secco, che permette una resa migliore dei particolari, ma che diede ben presto gravi problemi di stabilità. Già nel 1517 si cominciò a parlare di “gravi danni” e un secolo dopo il cardinale Federico Borromeo affidò al Vespino l’incarico di eseguire una copia perfetta dell’originale già dato per perduto. Da allora si susseguirono svariati tentativi di restauro, come quelli del 1770 con l’inopportuno rifacimento di Giuseppe Mazza. Sulla stessa scia, si inserisce il lavoro fatto all’inizio del Novecento da Luigi Cavenaghi che tentò di consolidare la pittura con resine dure, senza operare ulteriori ritocchi. Per nostra fortuna, un rigoroso e competente restauro, iniziato nel 1979 e terminato venti anni dopo, è riuscito a restituirci quello che rimane del capolavoro leonardesco.
Dipingere l’ultima cena sulle pareti dei refettori monastici era una cosa molto comune in quel periodo perché intendeva stabilire un parallelo tra il valore eterno della parola di Cristo, cibo dell’anima, e quanto veniva servito sulle frugali mense dei frati, cibo dei corpi chiamati a servire Cristo. Non si intendeva quindi banalizzare il significato della parola divina ma dare un senso più profondo al momento in cui la comunità monastica consumava insieme i pasti quotidiani.
Il maestro di Vinci realizzò un’opera che divenne il simbolo del Rinascimento pittorico italiano. Gesù è isolato, al centro, e questo preannuncia già il prossimo tradimento, mentre gli apostoli commentano in gruppi di tre quanto sta per avvenire. Sul tavolo sono ben visibili gli avanzi del pasto frugale che è stato appena consumato e la stanza è ornata da tappeti ispirati al Vangelo di Marco. Alle spalle dei convitati si staglia una magnifica prospettiva centrale che prosegue idealmente lo spazio della stanza, prolungando verso l’infinito le dimensioni reali del refettorio e mettendo in contatto la mensa monastica con il mondo reale.
Questa spettacolare scenografia sarà motivo di ispirazione di un’infinità di opere, dai pittori della scuola lombarda a Tiziano, Giorgione, Rubens e Rembrandt. La fama dell’affresco si diffuse rapidamente anche grazie a copie su tela di artisti come il Bramantino, Andrea Solario, Marco d’Oggiono.
Galliano Maria Speri