Modelli di civiltà alimentare a confronto

12 Luglio 2012

kamut1E’ dai tempi dell’Unità d’Italia che è stato posto il problema del divario economico tra Nord e Sud e già i primi parlamenti si occuparono, con scarso successo a dire il vero, della questione. La situazione, purtroppo, non è migliorata di molto  e dopo 150 anni si continua ancora a tirare in ballo il tema. Noi non abbiamo soluzioni, ma vorremmo dare un piccolo contributo per comprendere in modo più approfondito le differenze tra Nord e Sud. Sicuramente, come argomentano molti studiosi, il mancato sviluppo dei liberi comuni, impedito dalla politica centralizzatrice di Federico II, ha avuto un ruolo determinante nel rallentare il decollo economico del Meridione. Non dovremmo però trascurare il fatto che, dopo il crollo dell’impero romano, l’Italia venne sostanzialmente divisa in due da un punto di vista di cultura alimentare. A nord, infatti, il modello classico basato principalmente sulla cerealicoltura, subisce un vero e proprio tracollo perché nella nuova economia di sussistenza che viene a svilupparsi nell’Alto Medioevo si affermano grani inferiori di semina autunnale, come la segale, l’orzo o la spelta, o primaverile come il miglio, il panìco o il sorgo. In pratica, nella parte settentrionale del Paese si sviluppa il modello agro-silvo-pastorale, molto simile a quello dei Germani, mentre il Meridione mantiene una certa continuità con la tradizione cerealicola che aveva caratterizzato il modello produttivo romano. L’unica espansione dell’agricoltura meridionale si verifica invece in settori come la viticoltura, l’olivicoltura e più in generale l’arboricoltura, decisamente più consona al clima e al paesaggio meridionali. Traiamo questi interessanti dati da Alimentazione e cultura nel Medioevo di Massimo Montanari, testo uscito qualche anno fa e giunto brillantemente alla sua  undicesima edizione. Il capitolo dedicato alle diete monastiche offre molti spunti su cui riflettere.

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E’ noto come il consumo di carne fosse notevolmente limitato dalle diete monastiche poiché questa veniva ritenuta fonte di stimolo sessuale e quindi non consona all’alimentazione di un monaco che ha la santità come proprio obiettivo. Ma la casistica delle proibizioni era in realtà piuttosto diversificata: l’esclusione delle carni era talora perentoria, talora semplicemente raccomandata. In alcuni casi era indiscriminata, in altri comportava una distinzione fra carnes e pulli, ossia tra le carni di quadrupedi e volatili, per i quali si facevano più volentieri eccezioni. Il problema era ancora più sentito da quei membri della nobiltà che sceglievano la vita monastica e che sentivano la privazione della carne in modo lancinante, visto che per la loro cultura di origine il consumo abbondante di carne era quasi un emblema del loro stato sociale e quindi cibandosi dei soli legumi percepivano ancora più intensamente la privazione. Per fortuna, molti abati dotati di saggezza non applicavano fanaticamente le disposizioni anzi, a volte, condannavano gli eccessi di astinenza come peccato di superbia. In alcuni libri penitenziali si condanna inoltre chi digiuna la domenica, trascurando di festeggiarla anche nel cibo. Venivano poi fatte eccezioni per i monaci malati che per riacquistare le forze erano esplicitamente autorizzati a bere del brodo e a cibarsi di carne di quadrupede (visto che i volatili non erano proibiti espressamente a nessuno), non per cupidigia personale ma per rimettersi nel più breve tempo possibile e rientrare a pieno titolo nella vita e nella attività monastiche. Ovviamente, però, i monaci che mangiano carne lo fanno da soli e in un luogo diverso da quello dove mangiano gli altri ed in orari diversi, in modo da non contaminare il resto della comunità.

Massimo Montanari

Alimentazione e cultura nel Medioevo

Laterza, pagg. 224, € 18

 

Galliano Maria Speri

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