Alcune modalità di conservazione del pesce nel corso della storia alimentare
Fin almeno dall’età del Ferro, con la cultura di Golasecca (IX-IVsecolo a.C.), era diffusa nel Lago Maggiore e nel Lago di Como la pesca dell’agone o cheppia con reti a sacco, raffigurate anche in un graffito su un bicchiere del VII secolo a.C. da Castelletto Ticino, secondo sistemi economici ricordati ancora da Plinio il Vecchio in età romana.
L’alosa, cheppia o agone, detta anche sardina di lago o salaccia, era diffusissima nei grandi fiumi e nei laghi, dove veniva pescata a rete fino quasi ai giorni nostri, e raggiungeva branchi molto numerosi e dimensioni ragguardevoli nei grandi laghi lombardo-piemontesi, sostituendo ancora in età storica la pesca di altre specie, come il carpione (trota endemica del Lago di Garda) in area benacense. Era facile pescarla approfittando dell’abitudine di questo pesce di concentrarsi in fitti branchi, come le sardine, in presenza di un predatore, che fosse un grosso salmonide o un luccio.
Fino a pochi decenni fa erano abituali sul lago Maggiore e sul lago di Como i filetti di agone appesi a lunghi fili per essiccare al vento invernale freddo e secco (con la tecnica applicata per il merluzzo allo stoccafisso) o al sole, mentre gli esemplari più piccoli erano lasciati macerare nel sale senza nemmeno diliscarli. Era possibile anche una tecnica mista come nella antica tradizione tipicamente lombarda ed ancora attuale del missoltino. Per diventare missoltino, l’agone subisce una complessa lavorazione: i pesci vengono desquamati e privati delle interiora, strofinati con sale e, dopo un eventuale taglio dorsale, vengono deposti in una marmitta, ancora con sale, ove vengono rivoltati ogni 12 ore. La quantità di sale è critica per la successiva lavorazione, con percentuali variabili in funzione di pezzatura, temperatura e umidità. Dopo un paio di giorni, vengono risciacquati e infilzati in uno spago, così da poterli essiccare all’aria aperta. L’essiccamento procede per alcuni giorni, poi i pesci sono disposti in un contenitore (missolta, originariamente di legno), insieme a erbe aromatiche (alloro o altro). I vasi vengono chiusi ed il coperchio (un disco mobile di legno) esercita una leggera pressione, modulata dalla sovrapposizione di più vasi e da sassi. La pressatura procede per un minimo di un paio di settimane a tre mesi, con l’eliminazione del liquido fuoriuscito. Alcuni reperti dagli abitati di Castelletto Ticino, in particolare vasi sfondati con un disco di ceramica sul fondo per coprire senza trattenere liquidi, sembrano suggerire una attività analoga già nell’VIII-VII secolo a.C.
La alosa, marina e d’acqua dolce, era detta in ligure ed in celtico alaussa (da cui il nome ancora attuale di alosa) o alauca, con un termine che per l’ambito marino si estendeva probabilmente anche all’acciuga. Una iscrizione databile intorno al 575 a.C. da Castelletto Ticino ce ne conferma il nome e l’uso: il testo, inciso prima della cottura in celtico cisalpino su un coperchietto di impasto, [al]auxi (dativo strumentale o di termine, « con – o per – l’alosa ») ci dimostra l’utilizzo probabile di una salsa analoga a quella che i romani conosceranno come allec, latinizzando il termine celtico, simile alla nostra pasta di acciughe. Sarà infatti questa salsa a dare il nome “alici” in italiano alle acciughe.
La tradizione di una salsa salata di pesce perdurerà in Piemonte, fornendo tra l’altro un ingrediente fondamentale alla tipica bagna cauda piemontese, sostituendo gradualmente con il miglioramento dei collegamenti la pasta di acciughe liguri ai pesci d’acqua dolce locali.
Francesco Mascioli